Svoltarono in una strada da dove arrivava clamore di uomini e animali. Una lunga fila di carri si muoveva lentamente, e i cocchieri che arrivavano dalle vie laterali litigavano per entrare in quella principale, scambiandosi insulti e bestemmie. I cavalli impazienti sbuffavano, battendo gli zoccoli sul selciato.

Laura era incantata. Non aveva mai visto edifici tanto eleganti e vie tanto grandi e pulite, malgrado ci fosse più persone di quanto potesse immaginare.

Scoccarono le due del pomeriggio, un concerto di rintocchi dai campanili tutto intorno. In piazza delle Erbe la gente era così schiacciata tra le bancarelle che c’era da perdersi: ma era proprio lì che Rosina voleva andare, e stringendosi a lei Laura s’infilò nella folla.

Gabbie di polli e piccioni erano allineate su un tavolo, in un frenetico sbattere di ali. Verdurieri e fruttivendoli avevano il loro da fare: richiamare i clienti, vendere la merce e difenderla dalle mani fameliche dei monelli che correvano, giocavano e si spingevano in mezzo alla strada, suscitando una scia di proteste, sfiorando le ruote delle carrozze e le zampe dei cavalli. Tra i passanti c’erano anche preti e suore, e la loro furia nel mercanteggiare non era meno efficace di quella di maggiordomi e cameriere.

Nemmeno qui mancavano i mendicanti. Alcuni mascheravano il loro stato offrendo cesti di verdura, forse rubati in qualche orto, altri stringevano mazzolini di fiori di campo. La maggior parte non faceva nemmeno finta di vendere qualcosa, allungando mani sudice. Facce smunte e occhi cerchiati imploravano da mangiare o un soldino. Molti erano bambini rachitici, con stracci color fango, cappelli flosci e cuffiette troppo grandi.

«Sono falsi mendicanti» spiegò Rosina quando furono passate. «Si fanno segni sotto gli occhi con il nerofumo, e piaghe e croste con impasti di farina secca.»
Laura non riusciva a credere a quello che sentiva:
«Perché si umiliano così? Non possono cercare un lavoro onesto?»
«Qualcuno vorrebbe ma non può. Qualcuno potrebbe, ma non vuole.»

Ogni tanto arrivavano carri di casse di formaggi, frutta e verdure, e altri passavano portando tranci di carne. Il miscuglio di odori dava quasi alla testa.

(La Città delle Streghe)

Piazza delle Erbe (oggi piazza Palazzo di Città) a fine seicento era uno dei centri nevralgici della vita torinese. Ospitava infatti il mercato di frutta e verdura (ma anche animali da cortile, uova e formaggi) e vi si affacciavano, oltre al palazzo del Comune, botteghe di librai e gli esercizi commerciali di mastro Durando vinaio (famoso per il rosolio) e mastro Dotta (pasticcere, di cui erano particolarmente apprezzati i biscotti chiamati ‘dottini’). In questo isolato, inoltre, c’erano le sedi delle corporazioni.

Piazza delle Erbe accoglieva luoghi di penitenza: la gogna, il patibolo e la panca di pietra su cui si facevano sbattere le parti posteriori (e denudate) dei colpevoli di bancarotta (da cui arriva il modo di dire torinese “andé del cul”, andare del culo).

Ci furono anche punizioni più crudeli, però. Il 5 maggio del 600 quattro sospetti untori vennero squartati con tenaglie roventi, altri due mandati al rogo.

Qui ci fu la forca durante l’assedio del 1706. Il generale Von Daun promise la forca a chiunque fosse sorpreso a rubare nelle case dei quartieri vicino alla Cittadella, fatte sgomberare per il pericolo delle bombe. La minaccia fu abbastanza efficace: fu impiccato un solo soldato colpevole di sciacallaggio. Stessa pena toccava ai disertori. Quando un soldato del reggimento guardie abbandonò il suo posto il barone di Pallavicino, comandante del reggimento, usò tutti i mezzi per lanciare il messaggio che non si sfugge alla giustizia del Duca. Sapendo che il disertore era di Chieri e immaginando di trovarlo lì, forzò il blocco francese con un gruppo dei suoi e riportò il fuggitivo a Torino, Per impiccarlo subito dopo, in piazza delle Erbe, appunto. Malgrado il suo utilizzo come “luogo delle punizioni pubbliche” durante la dominazione napoleonica si preferì piazza Carlina per ospitare la famigerata ghigliottina

La piazza comunicava con la vicina piazzetta Corpus Domini attraverso un grande arco chiamato Volta Rossa. La presenza di numerosi musicisti itineranti, saltimbanchi e ciarlatani dava a questa zona il soprannome di “Portici della Fiera”.

I mercati di Torino seguivano una logica molto razionale. Gli ortaggi in piazza delle Erbe, il grano in piazza Corpus Domini, il burro e i formaggi nella piazzetta San Benigno (che oggi è appena un cortile all’interno del palazzo civico), il pesce in piazza San Gregorio ai piedi della Torre Civica (scomparsa con l’abbattimento della torre e il raddrizzamento di via della Dora Grossa – via Garibaldi).

Dal quadro di Graneri possiamo farci un’idea di quanto dovesse essere caotico il mercato di Piazza delle Erbe ai tempi di Laura e Gustìn.

Per darci qualche riferimento: l’osservatore si trova con il palazzo del Comune sulla destra (non si vede) e con di fronte, sullo sfondo, il campanile di San Francesco e la cupola di San Rocco.