Oggi voglio addentrarmi con voi nella parte più vecchia della cosiddetta “Città Vecchia” di Torino, che oggi viene riconosciuta come la zona del Quadrilatero ed è piuttosto popolare nella movida notturna.

Un tempo sede delle dimore delle più importanti famiglie nobili, all’inizio del 1700 era diventata molto più popolare, più povera, e con una presenza criminale più rilevante. Si trattava di una zona buia anche nelle ore del giorno a causa dei palazzi alti tre, quattro piani e di stradine molto strette che prendevano il nome dalle botteghe (via dei Cappellai, dei Pasticceri, dei Pellicciai), o di altri luoghi importanti (via del Gallo, dello Spirito Santo, delle Quattro Pietre) che si trovavano nelle vicinanze. 

Al centro della vita del quartiere c’era una chiesetta intitolata all’apostolo Pietro. In epoca medievale la chiamavano S.Pietro “Curte Ducis”, per la vicinanza del palazzo del duca longobardo (e successivamente del Senato): più avanti prese il nome di S.Pietro del Gallo perché, riferiscono le cronache, sulla facciata era dipinto un gallo in compagnia del santo. Un accostamento tutt’altro che casuale: il gallo è tradizionalmente un animale sacro perché il suo canto segna la fine delle tenebre notturne. Con San Pietro, poi, ha un legame speciale: prima che il gallo cantasse, dicono le Scritture, l’apostolo rinnegò Cristo.

La chiesa, dicevamo, era così popolare da dare il nome non solo all’intero isolato, ma anche a una locanda poco distante la cui esistenza è accertata e che mi sono permesso, nella mia trilogia letteraria, di prendere in prestito per farla diventare il regno di uno dei personaggi, Costanza.

I viaggiatori che entravano in città dalla vicina porta settentrionale avevano l’imbarazzo della scelta in tema di vitto e alloggio: oltre alla locanda del Gallo c’era anche quella, ben più antica, di San Giorgio.

Ai pellegrini con meno soldi in tasca o più fede nel cuore, la chiesa di San Pietro offriva un piccolo ospizio con quattro letti per gli uomini e due per le donne: i dormitori erano ovviamente separati e, pare, molto elegantemente addobbati (i letti avevano tanto di baldacchino con drappi rossi!).

I viaggiatori che invece desideravano un po’ di trasgressione non avevano che da spostarsi nella via accanto, quella delle Fragole, dove sembra ci fossero diverse case chiuse. La possibilità di avere compagnia, in realtà, non era negata nemmeno nelle locande in apparenza più rispettabili.

Al sito Atlante di Torino devo la scoperta di alcuni aneddoti riguardanti le taverne e osterie della zona. Uno di questi è che a quei tempi vino, fieno venivano pagate ‘a ore di permanenza’, non ‘a consumo di quantità’.

Proprio come le signorine di facili costumi. Che erano tante, tantissime, e di ogni età: molte erano poco più che bambine, molte nemmeno ‘poco più’. Dal censimento fatto fare nel 1705 in previsione dell’assedio nulla sfuggiva agli occhi degli uomini del Duca. 

La presenza di prostitute tra i clienti doveva essere qualcosa di talmente comune che un cartello fuori da uno dei locali, posto vicino alla chiesa di San Pietro del Gallo, ammoniva: “Il Parroco non osi andare all’osteria”.

Sempre da Atlante di Torino vengo a sapere che in una storia della famiglia Gonzaga è scritto che: «l’ostaria San Giorgio ospitò nel Quattrocento Chia­ra Gonzaga in viaggio di nozze a Torino e partendo per le cavalcate verso i prati di piazza Castello lo staffiere sempre teneva a freno i cavalli, mentre l’oste cortesemente porgeva in una coppa d’argento il cordiale agli sposi che già avevano il piede in una staffa … ».

Ecco quindi l’origine del popolare detto de “il bicchiere della staffa!”

Quanto al San Giorgio, in epoca barocca è presumibile pensare che la sua clientela fosse scesa di livello rispetto ai tempi d’oro, visto che l’ampliamento verso il Po della città aveva dato vita a quartieri (e alberghi) più belli, più eleganti e specialmente più sicuri.

Ai tempi dell’assedio di Torino i clienti dovevano essere per lo più piccoli borghesi e commercianti che andavano e venivano dalle campagne per i vicini mercati di Piazza del Duomo (dove si commerciavano polli, uova e selvaggina) e Piazza delle Erbe (che vendeva pesci acqua dolce, frutta, verdura, formaggi, olio).

Spesso i tavernieri approfittavano eccedendo nei prezzi, al punto che nel 1630 il Duca Vittorio Amedeo I fu obbligato a legalizzare una tariffa quotidiana massima, di 1 lira e 12 soldi al giorno cavallo compreso.

Un’ultima curiosità tocca a un minuscolo vicolo che si dipartiva proprio dalla chiesa di San Pietro del Gallo. Le case che vi si affacciavano erano appartenute a una potente famiglia medievale estinta anni prima, i Maschara. La via dei Maschara era diventata via delle Maschere e poi, forse per l’aspetto buio e lugubre, via delle Masche. Le streghe, in un epoca dove la superstizione aveva un peso, ci mettevano sempre lo zampino.

 

“Il Gallo” era un’osteria della Città Vecchia, frequentata da mercanti e ufficiali dei reggimenti savoiardi. Nello stesso isolato c’erano le carceri senatorie e i Do-menicani, Santo Spirito, il Seminario e il Duomo.
Gustìn di solito si teneva distante da quella zona di Torino: troppi preti e troppi sbirri per i suoi gusti, ma l’idea di mangiare lì era stata di Gropello e lui non in-tendeva contraddire il suo padrone per così poco.
Entrò nella taverna facendo strada al Conte e fu accolto dal profumo di pane, carne e cipolle. A giudicare dalle porzioni nei piatti degli avventori e dalla velocità con cui venivano svuotati, si mangiava bene e in abbondanza.
Il pavimento era pulito, non c’erano ubriachi appisolati sulle panche e gli avventori si facevano gli affari propri: tutta gente rispettabile, borghesi e ufficiali, con le uniformi e le giacche dai bottoni ben cuciti, le camicie lavate e le scarpe lucide.
(La Città delle Streghe)

L’immagine in testa al post è un dipinto di Giovanni Michele Graneri, pittore famoso per le sue rappresentazioni della quotidianità nella Torino barocca.