Conoscendo il conte Gropello, Gustìn era tentato di credere che avrebbe potuto incontrarlo di fronte ai magazzini, armato di schioppo e bilancino per assicurarsi che non venisse portata via nemmeno un’oncia di troppo rispetto a quanto era stato deciso. E non poteva dargli torto: i veri problemi, per Torino, sarebbero iniziati quando le scorte fossero finite.
Un suono di passi interruppe i suoi pensieri, e il barone de la Roche d’Allery entrò nel posto di guardia chiedendo:
«Siete l’uomo di Gropello?» Non era alto, e tutt’altro che imponente, ma il suo sguardo incuteva rispetto e timore. Una cicatrice gli segnava il viso, un ricordo dell’assedio di Verrua. Gustìn gli tese il lasciapassare, lui lo ignorò.
«Avete scelto un brutto momento per le vostre indagini. I francesi hanno preso alcune gallerie, e la strada coperta potrebbe presto cadere nelle loro mani.»
Una bomba di mortaio cadde più vicina delle altre, facendo tremare il soffitto.
D’Allery non fece una piega. Gustìn dovette schiarirsi la voce perché credeva di averla perduta:
«La Cittadella rischia di cadere?»
«La Cittadella, monsù…»
«Graziadei.»
«Monsù Graziadei, la Cittadella è la chiave per non perdere la guerra. »

(La Città dell’Assedio)

Questa poderosa fortificazione a forma di stella pentagonale sorgeva all’angolo sudovest della Torino di allora, approssimativamente nell’area comprese tra le odierne via Cernaia, corso Vinzaglio, corso Bolzano e corso Matteotti. Rivolta in direzione della Francia: una casualità o un segno di aperta sfida? Chi lo sa. Di certo, quando fu costruita, nel 1564, il Duca Emanuele Filiberto di Savoia andava molto più d’accordo con gli Spagnoli (che, tra l’altro, occupavano la Lombardia) che con i Francesi.

Il progetto fu ispirato alle più moderne innovazioni dell’arte bellica dell’epoca: il profilo di difesa era quello della difesa “rasante”, con profili bassi e di grande sezione, più adatta a difendersi dall’artiglieria di quella “piombante”, tipica del Medioevo, che prevedeva mura alte e strette. La Cittadella era costituita da cinque poderosi bastioni che costituivano i vertici di un pentagono… o di stella a cinque punte o pentacolo, secondo gli studiosi di esoterismo, e non senza fondamento: pare infatti che questa materia appassionasse non poco i membri di casa Savoia.

A proposito di curiosità “esoteriche” e non. L’area scelta per la costruzione della Cittadella occupava una chiesetta dedicata a San Solutore che dovette, ovviamente, essere abbattuta. Durante i lavori di demolizione e poi di scavo, gli operai trovarono i resti di un antico tempio dedicato alla dea egizia Iside. La chiesa cristiana, come spesso capitava in epoca medievale, veniva eretta sui basamenti di quelle pagane. La presenza di un culto di origine egizia a Torino non significa necessariamente che gli antichi egizi abbiano fondato una colonia da queste parti, come spesso venne scritto e detto per compiacere il desiderio dei Duchi di Savoia di attribuire un’origine “mitica” alla loro città. Iside era una divinità molto diffusa tra la gente comune in epoca romana, per cui non è improbabile trovare tracce del suo culto anche ad Augusta Taurinorum. Inoltre, anche nei primi secoli di diffusione del Cristianesimo rimanevano forti tracce di culti pagani: Iside, in particolare, proteggeva l’attività agricola offrendo predizioni del futuro legate alla Luna per propiziare i raccolti. Con tutta probabilità, quindi, niente Egizi a Torino, se non quelli arrivati sotto forma di mummie nelle numerose spedizioni archeologiche dei secoli scorsi. Ma torniamo alla Cittadella e ai suoi bastioni.

Ciascun bastione fu nominato in omaggio: al “Duca” di Savoia, a sua moglie la “Madama”, al loro figlio il “Principe”, a “San Maurizio, patrono della dinastia e infine al “Pacciotto” (l’architetto urbinate incaricato della costruzione). Successivamente, quest’ultimo bastione venne dedicato a un altro santo patrono “San Lazzaro”, mentre il bastione del Principe venne rinominato a ricordo del “Beato Amedeo”, un altro Duca di Savoia vissuto nel 1400.

La Cittadella occupava un’estensione ragguardevole, abbiamo detto, e accoglieva numerose strutture per ospitare le guarnigioni militari e approvvigionarle del necessario. C’erano dormitori, fucine, scuderie, magazzini, forni per il pane, una polveriera e una cisterna dell’acqua che sorgeva proprio al centro del piazzale. C’era anche una prigione che accoglieva, tra l’altro, una sala delle torture. Il governatore della Cittadella aveva un edificio tutto per lui da usare come abitazione. E c’era addirittura una chiesa parrocchiale (ovviamente dedicata a Santa Barbara, patrona degli artificieri).

Sulla Cisterna o “cisternone” merita fare un approfondimento: si trattava infatti di un pozzo, adornato di colonne, che scendeva fino a 18 metri sotto il livello del suolo per raggiungere la falda acquifera. Per scendere e risalire si percorrevano due rampe elicoidali, una per ogni senso di marcia, larghe abbastanza da poter condurre i cavalli ad abbeverarsi: con questa struttura a doppia spirale era impossibile che chi scendeva incontrasse chi risaliva.

 

 

 

Alla Cittadella era possibile accedere attraverso due porte: la prima era “la porta di Città”, inglobata del Mastio, oggi unico elemento a essere sopravvissuto alla distruzione operata da Napoleone prima e dai piani urbanistici dell’epoca. La seconda era detta “Porta del Soccorso” che si apriva in direzione della campagna. Il nome non richiama procedure di salvataggio, ma la Madonna del Soccorso, un culto di origine medievale introdotto dai preti agostiniani.
Anche in questo caso vale la pena fare una digressione fantastico-esoterica. Nel 1718, a Castellammare del Golfo in Sicilia, era in corso una guerra tra i Savoia e gli Spagnoli per il possesso dell’isola. Il popolo, terrorizzato sotto le bombe, implorò l’intervento della Madonna del Soccorso che era la patrona della città. La Madonna, vestita di bianco, apparve alla testa di una schiera di angeli scendendo verso il porto dove infuriava la battaglia e mettendo in fuga il nemico. Il romanziere Luigi Gramegna, nel suo “Dragoni Azzurri”, ambientato durante l’assedio di Torino, immagina un episodio simile durante la battaglia di San Secondo del 27 agosto che fu il vero apice dello scontro, il punto di svolta da cui si decise, probabilmente, la vittoria dei difensori.

Malgrado la protezione della Madonna del Soccorso e di Santa Barbara, la Cittadella non fu esente da incidenti anche in tempo di pace. Il 20 agosto 1698 l’esplosione del magazzino delle polveri devastò la Cittadella e tutte le abitazioni adiacenti. Cito questo evento nella “Città delle Streghe”, in una chiacchierata tra Fioreste e un venditore di caldarroste. Una strage di soldati e civili, tra cui il curato di Santa Barbara che dovette essere interamente ricostruita, e seicentomila “livres” di danni in città (per intenderci, un bravo artigiano dell’epoca guadagnava in media una livre al giorno, e la Madama Reale, per mantenere lo standard di vita suo e della sua corte, ne riceveva quattrocentomila all’anno).

Nei XVII e XVIII secolo la Cittadella venne ulteriormente ingrandita e fortificata, quasi triplicando la sua estensione originale. All’epoca dell’assedio copriva un’area corrispondente a circa un quinto dell’intera città. Vennero realizzate le “controguardie” davanti ai bastioni (opere a forma di V rovesciata con le punte rivolte verso l’esterno), fortini avanzati e fortificati, strade coperte (camminamenti ricavati sopra il bordo dei fossati, muniti di palizzate, parapetti e posizioni di tiro). Per affrontare l’assedio del 1706, il Duca Vittorio Amedeo fece posare tonnellate di terra per creare declivi che nascondessero la vista delle mura dal piano del fronte d’attacco: una brutta sorpresa per gli assedianti, che scoprirono che per tirare sulla Cittadella bisognava mirare alla cieca oppure avanzare i cannoni fino al bordo dei declivi, in piena vista sotto il fuoco nemico.

Il generale Solaro della Margarita, comandante dell’artiglieria durante l’assedio, scrisse queste parole in una lettera del settembre 1705, per descrivere i preparativi della difesa.
“Del resto è una cosa stupenda l’ammirare tutti i lavori che si son fatti, in un mese, attorno a questa città: io vi ripeto che è un prodigio. […] Non ho qui la pretesa di enumerarvi tutte le opere esteriori che noi abbiamo aggiunto alle nostre fortificazioni, ma al vedere queste masse di terra elevate dappertutto in sì poco tempo, si direbbe che queste opere sono state fatte per magia; non ci si fida dei propri occhi quando le si osserva…”

Le immagini di questo post sono tratte dal sito di Museo di Torino.