In piazza Carlina Gustìn fu accolto dal consueto spettacolo del mercato del vino. Sotto le grandi tettoie i venditori declamavano le doti della loro merce: vino rosso e vino bianco, vino dolce e pregiato, vino brusco meno caro, ma sincero.
Mancava più di un mese e mezzo alla festa di San Matteo, ma già si parlava del vino giovane che sarebbe uscito dalla prima vendemmia. E chi osava domandare quale padrone lo avrebbe assaggiato, se Vittorio Amedeo o il generale La Fojada, abbassava la voce al passaggio degli sbirri che controllavano i borseggiatori, gli zingari e i prezzi della merce. Gustìn notò un prete che contrattava il prezzo di una botte. Sotto qualunque padrone, che fosse stato il Duca di Savoia o il Re Sole, quella gente avrebbe continuato a prosperare.
I bambini giocavano a rincorrersi e a farsi dispetti tra le bancarelle: dalle finestre dell’Albergo di Virtù, i fanciulli affidati all’educazione dei Gesuiti li guardavano con invidia, anche se quei monelli erano sporchi e malvestiti e molti avevano i piedi nudi, coriacei come il cuoio.
All’ombra di Palazzo Roero di Guarene c’era un gruppo di uomini con il camicione azzurro e grossi contenitori muniti di coperchi, simili a gerle. In tempo di pace, i brentatori si accertavano che il vino non fosse annacquato o inacidito, che la misura venduta fosse giusta, che le gabelle fossero state pagate. Dall’inizio dell’assedio facevano parte delle squadre di soccorso e le loro brente, riempite d’acqua, servivano a spegnere gli incendi.
Gustìn passò oltre, diretto verso il lato della piazza dove una ventina di uomini intrecciava cesti di vimini alti come un uomo: quei gabbiotti, riempiti di terra, proteggevano i soldati sugli spalti.
Aveva fatto metà della strada quando venne fermato da una voce.
«Un santino, monsù! Comprate un santino!»

(La Città dell’Assedio)



Parliamo oggi di uno dei luoghi più importanti per la vita quotidiana della Torino barocca: piazza Carlina, sede del mercato del vino.

Ho già raccontato in questo post quanto fosse importante il vino nell’alimentazione dei torinesi. Nell’organizzazione molto sabauda degli spazi cittadini, le principali “categorie merceologiche” avevano un luogo ben definito per lo smercio: nel caso dei vini, piazza Carlina.

La piazza nacque durante i lavori di ampliamento del 1673, quelli che si aprirono in direzione del Po e fecero nascere la “città nuova”, moderna ed elegante (e molto ambita dai ricchi borghesi dell’epoca).  Il progetto della piazza fu disegnato dall’architetto Amedeo di Castellamonte su incarico della Madama Reale, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours: inizialmente pensata in forma ottagonale, prese poi la forma quadrata che conserva tuttora.

Il luogo fu sin da subito intitolato al marito della Madama Reale, e infatti il nome ufficiale sarebbe “Piazza Carlo Emanuele II”, eppure sin da subito i torinesi presero a chiamarla piazza Carlina, tanto che questa dicitura appare anche nelle toponomastiche. Il perché di questo nomignolo sembra alludere alla presunta effeminatezza del Duca di Savoia. Scrivo e sottolineo presunta, dal momento che Carlo Emanuele II ebbe non solo due mogli, ma anche un gran numero di amanti ufficiali da cui non mancarono numerosi figli riconosciuti. Sulla credibilità di tali allusioni, quindi, la prudenza è d’obbligo.

Piazza Carlina ospitava dunque il mercato del vino, molto fiorente all’epoca tanto da dare vita a una vera e propria categoria di lavoratori: i brentatori (del vino e dei brentatori ho parlato in questo post). Oltre a quelli dei vinai, c’erano bancarelle che vendevano fieno, legna, carbone e anche generi di prima necessità come verdura e frutta. Il mercato si svolgeva sotto quattro grandi tettorie, abbattute nel XIX secolo per far spazio alla statua di Cavour. Sembra che l’effetto delle tettoie non piacesse molto ai residenti: lo storico Goffredo Casalis (1781 – 1856) scriveva:

“In quell’epoca vi si costruivano quattro tettoje, sotto alle quali dovean tenersi i mercati, e particolarmente quello del vino, che ancor vi si fa di presente, e prima facevasi in sulla piazza della cittadella, or denominata delle legna. Queste tettoje sono un vero ingombro alla piazza Carlina, la quale senza esse apparirebbe assai bella, essendo attorniata da eleganti palazzi.

Nel 1706, durante l’assedio, qui si radunavano anche i cestai incaricati di costruire i gabbioni, grosse ceste oblunghe che, riempite di terra, costituivano efficaci ripari temporanei per i difensori della Cittadella. Sempre nel 1706, il palazzo Roero di Guarene (che si affaccia sul lato orientale della piazza) ospitava l’ambasciata inglese.

Sulla piazza si affacciavano anche l’Albergo di Virtù (istituzione benefica di cui ho parlato in questo post)  e il convento delle monache agostiniane intitolato alla Santa Croce.

Non c’è da stupirsi se la piazza Carlina fosse uno dei luoghi più “vivaci” e frequentati della Torino settecentesca. Nel secolo seguente assumerà importanza per altri motivi meno allegri (sarà infatti qui che nel periodo napoleonico verrà montata la famigerata ghigliottina, e qualche decennio dopo la chiesa di Santa Croce lascerà posto all’ospedale militare), ma queste sono altre storie. Per quanto attiene la mia, non posso non nutrire per piazza Carlina un affetto particolare: è infatti qui, tra le bancarelle, che avviene il primo incontro tra i due protagonisti dei miei romanzi.

 

Gustìn finse di essere arrivato lì per caso, tenendo lo sguardo sul banco. Appoggiate su una tovaglia di lino, scatole a scomparti ospitavano una gran quantità di saponi e boccette colorate. Riconobbe la voce della ragazza che si rivolgeva a lui:
«Monsù? comprate un regalo per la vostra fidanzata o la vostra buona madre.»
Risalì con gli occhi il grembiule, il vestito che lasciava intuire un petto esile, fino a incrociare i suoi occhi: occhi pieni di luci, che incorniciavano un viso dall’espressione gentile. La ragazza poteva avere vent’anni, o forse meno.
«Cosa vendete, mademoiselle?»
«Saponi, creme, profumi, acque di colonia» rispose lei. La voce squillante aveva stonature sulle tonalità più basse, suggeriva l’immagine di un passerotto timoroso di posarsi a terra. Un passerotto che veniva dalla Francia, l’accento era inconfondibile.

(La Città dell’Assedio)



L’immagine della piazza Carlina in epoca settecentesca è tratta dal sito Museotorino.