Torino, 25 aprile 1686

Per essere uno che gli sbirri guardavano come un cane con la rogna, Gustìn pensava di essere stato trattato troppo bene.
Nei suoi quattordici anni di vita aveva imparato a conoscere le carceri senatorie di Torino: stanzoni dal lezzo tremendo dov’erano stipati uomini, donne, bambini che dormivano per terra e si dividevano un unico grande vaso da notte. Cani e gatti randagi s’intrufolavano dalle minuscole finestre con le grate per contendere ai prigionieri il cibo raffermo e scambiarsi pulci e pidocchi. Poi c’erano gli sbirri del Vicario, più duri e bastardi di quelli cui davano la caccia: quando prendevano qualcuno, in due lo tenevano fermo e il terzo lo picchiava col bastone, mentre scommettevano quanto sarebbe durato senza svenire.
Eppure c’erano posti ancora peggiori delle carceri del Senato. Nella prigione di Miolans le celle erano chiamate “inferno”, e non solo perché stavano sottoterra. A Miraboc i condannati tiravano le cuoia in due settimane, sepolti nelle cisterne, mentre a Bard venivano calati con la corda in un pozzo scavato nella roccia: niente luce né cibo, né acqua… a meno che non piovesse, e allora se andava bene facevano il bagno, altrimenti annegavano con i topi. Questa volta invece Gustìn era stato rinchiuso in una torre del palazzo che i torinesi chiamavano “il Castello”, e continuava a pensare che neppure nei suoi mo-menti migliori aveva vissuto in un posto più pulito, caldo e confortevole di quella… prigione. Se non avesse badato alle grate alla finestra, avrebbe potuto immaginare di essere nella stanza di una locanda per la gente di rango, con il letto di piume, lo scrittoio, il catino e la brocca per lavarsi. Quel riguardo con cui era stato trattato, per la prima volta, lo riempiva di domande cui non riusciva a rispondere.

(La Città delle Streghe)

Il “Castello” in cui Gustìn si trova rinchiuso all’inizio del romanzo, stupendosene assai (e a buona ragione!), altro non è che l’attuale Palazzo Madama. Noi lo conosciamo come luogo di eleganza sopraffina, dove la Madama Reale teneva la sua corte filo-francese spesso in opposizione a quella del figlio, nell’antistante Palazzo del Duca (poi Palazzo Reale).

Se un agente immobilare di fine 1600 avesse dovuto trarre indicazioni su questo palazzo per fare un annuncio di vendita, avrebbe scritto qualcosa del genere: “gran camera di ricevimenti solenni a pianterreno, una al piano di sopra, con una sala per la cena. Loggia guarnita di panche sopra la porta grande, loggia sulla pusterla, un’altra dove lavoravano i servi. Camera da letto, camera sulla cucina col pello, ossia col riscaldatoio comunicante col calore della cucina, per dormirvi d’inverno. Ogni camera aveva la sua retrocamera. Cappella e sito attiguo per conservare cera e spezie. Due guardarobe, la panetterie, la bottiglieria, le cantine, la larderia per conservare i grassi. Dodici camere per maggiordomo, scudieri e serve”.

La passione dei Savoia per i reperti è testimoniata dalla presenza di diverse gallerie con pinacoteche e oggetti rari tra cui, pare, il corno di un unicorno. L’amuleto, considerato potente portafortuna, venne trafugato dal generale francese Carlo Cossé de Brissac e proprio alla sua scomparsa venne imputata la morte prematura del piccolo Francesco Giacinto di Savoia, nel 1638. (fonte: “Atlante di Torino”)

Palazzo Madama, però, ha un lato più oscuro, dal momento che fu utilizzato anche come carcere. Un carcere all’acqua di rose, forse, ma pur sempre un carcere. Le prigioni per i criminali comuni erano all’epoca le famigerate Carceri Senatorie di via s.Domenico 30, mentre nelle torri di Palazzo Madama venivano rinchiusi i “prigionieri di riguardo”. Uno di questi, il Senatore Sillano, fu accusato a metà del 600 di aver tramato per uccidere il Duca e sua madre. Lui e altri due congiurati (un gentiluomo di camera e un monaco della Consolata!) avevano inizialmente scelto il veleno, ma poi decisero di ricorrere a un mezzo ancora più sottile: magia nera. Venuti in possesso della “Clavicola Salomonis”, un testo proibito dalla Chiesa, realizzarono due statuette in cera aventi le fattezze delle vittime con l’intenzione di farne l’equivalente di un rito vodoo. Scoperti e arrestati, i tre morirono molto in fretta e prima del previsto. Sillano, in particolare, fu rinchiuso in una torre di Palazzo Madama con la strana concessione di essere servito da un maggiordomo che gli portava il cibo da casa. Un mattino, poco dopo colazione, avvertì dolori lancinanti e morì in pochi minuti. La stessa mattina 11 medici e 6 chirurghi vennero e fecero aprire il cadavere. Laconica relazione dice che nel cadavere non c’era traccia di veleno, ma non si spiegò né la causa della morte, né come fu fatto l’esame, né in che stato aveva i visceri. Gli altri due congiurati vennero uccisi in carcere. Rimangono molti dubbi su questa vicenda, e il sospetto che qualcuno avesse voluto chiudere la bocca ai colpevoli prima che rivelassero troppo. Per esempio il nome del mandante…

La fotografia di Palazzo Madama, tratta dal sito di Museo di Torino, è dello Studio fotografico Gonella, 2011.