«È vero che il Duca sta formando nuovi reggimenti?» chiese Rosina. Il cantoniere riprese il controllo della conversazione:
«Ha nominato i comandanti, e la leva adesso è forzata. Ai figli dei signori non è più concesso pagare per sottrarsi all’arruolamento: il Duca ha più bisogno di soldati che di denari.»
«Serviranno ben anche i denari» osservò Fioreste.
«A quelli i Savoia hanno provveduto impegnando i gioielli e il vasellame.»
«Alberto… noi possiamo stare tranquilli vero?»
Laura comprese perché Rosina aveva portato il discorso su quell’argomento. Le rimaneva un figlio che viveva con la moglie e i figli a Pinerolo.
«La Congregazione ha deciso che il commercio del vino è troppo prezioso. Vinai e brentatori non avranno l’onore di versare il sangue per la patria.»
Il figlio di Rosina era un brentatore: trasportava il vino con un recipiente chiamato brenta, sorvegliava che il prodotto non fosse annacquato o inacidito, e che i mercanti pagassero le tasse.

(La Città delle Streghe)

Il commercio del vino, nella capitale del Ducato, aveva una certa rilevanza. Per questo era molto diffusa la figura del ‘brentatore’.

Organizzati in corporazione e autorizzati dalla municipalità, erano gli unici a poter stazionare presso la Piazza del Vino (oggi Piazza Carlo Emanuele II) nei giorni di mercato con lo strumento del mestiere da cui prendeva il nome.

La brenta era al tempo stesso contenitore e strumento di misura: munita di coperchio e di marchio della città, servivano a travarsare il vino dalle botti dei venditori nei recipienti dei compratori.

I brentatori erano facilmente riconoscibili perché indossavano un “camisazzo” azzurro, erano dotati di “canne” per l’assaggio (della capacità di 100 grammi) e di “pongone“, che serviva a prelevare dalle botti la quantità di vino che spettava loro come mercede (una pinta di vino per ogni carro di 492 litri scaricato), quando trasportavano vino per i rivenditori. Le loro incombenze andavano ben oltre il semplice servizio di trasporto e consegna: dovevano assaggiare il vino in vendita per certificare che non fosse annacquato e inacidito, e verificare che le tasse fossero state pagate regolarmente. Per essere riconosciuto brentatore bisognava dunque essere persone perbene, serie e oneste. Non era infatti un mestiere facilissimo.

Parliamo del vino, adesso.
Sin dal medioevo la collina torinese era terreno fertile per le vigne, ma nel 6-700 divennero di moda presso le classi agiate: nobili e borghesi cominciarono a fare a gara per produrre vini di qualità. Il vino costituiva un elemento chiave nell’alimentazione, lo testimonia la sua presenza nei regimi dietetici delle truppe, degli istituti monastici e assistenziali, degli ospedali.

Il vino era considerato un genere di prima necessità, come la carne, la legna e il carbone! Il vino più diffuso era in genere di bassa gradazione e rappresentava una buona alternativa all’acqua, che dava assai poche garanzie igieniche. Erano quantità molto consistenti quelle che giornalmente affluivano a Torino, provenienti principalmente dalle zone prossime alla capitale. Era la municipalità torinese a stabilire i tempi della vendemmia, che nella pianura intorno a Torino doveva svolgersi non prima della festa di san Matteo (21 settembre) e sulla collina non prima di san Michele (29 settembre): questo per far sì che l’uva venisse raccolta al massimo della maturazione, in modo da produrre vino di buona qualità ed evitare speculazioni intorno al vino nuovo, che godeva di particolare favore presso i consumatori: la bassa gradazione alcolica e le tecniche di vinificazione piuttosto rudimentali non favorivano affatto la lunga conservazione del vino. I consumatori avevano dunque l’abitudine di preferire i vini giovani.

Il commercio del vino era oggetto di una normativa rigorosa che mirava a salvaguardare il consumatore. Come per il pane, si proponeva di evitare che la scarsezza di prodotti e i prezzi elevati provocassero malumore e proteste nel popolo.

La scelta di piazza Carlo Emanuele II (piazza Carlina, come la chiamavano i Torinesi facendo riferimento agli atteggiamenti non proprio mascolini del Duca) per il mercato del vino non era casuale: era infatti vicina alla porta di Po, comoda agli attracchi del trasporto fluviale, ed era sulla direttrice del ponte sul fiume cui facevano capo le strade che scendevano dalla collina. Il mercato si teneva di martedì, mercoledì e venerdì.

I rivenditori torinesi, gestori di osterie e di locande potevano fare acquisti direttamente da produttori o da mercanti, purché le contrattazioni avvenissero a oltre 5 miglia dalla capitale.
Oltre che sul mercato, nei giorni e nelle ore in cui esso si teneva, i privati cittadini potevano acquistare vino da asportare nelle numerose rivendite aperte in città o consumarlo a bicchieri seduti al tavolo di un’osteria o di una locanda. Queste erano assai numerose (oltre 150 entro le mura a metà Settecento) dovevano essere autorizzate dall’Ufficio del vicario se volevano vendere o mescere vino e dovevano esporre un’insegna dinanzi alla bottega per indicare che nel locale si vendeva vino.