Alla partita giocata dai Duchi di Savoia sul tavolo delle diplomazie e sui campi di battaglia corrisponde, tra metà del 1600 e la fine del 1700, uno sviluppo della città dal punto di vista architettonico e artistico che pone a farla diventare degna di una corte dal respiro non più locale, ma europeo.

Le caratteristiche della città erano quelle che si mantengono tuttora: uniforme, regolare, allineata nelle sue simmetrie e nelle prospettive, facile da comprendere perché basata sulla ripetizione di moduli. In questo tracciato a reticolo ordinato si posano 143 quartieri (isole, come li chiamavano allora), 32 strade, 10 piazze e ben 110 tra chiese e cappelle, e una quantità di edifici moderni, dalle irregolarità spettacolari.

L’erudito veronese Scipione Maffei, in visita a Torino nel 1727, scrisse: “i palagi e i superbi e così ben’intesi edificii di vario genere che in Torino e in adiacenti luoghi si veggon nascere e perfezionarsi da un anno all’altro, mostrano l’arte maestra e scientifica dell’architettura, tanto guasta ne’ prossimi tempi da ridicole stravaganze e corrotta, fiorire in sommo grado, e quivi in certo modo ricoverarsi”.

Venuta alla ribalta grazie al ruolo da protagonista di Vittorio Amedeo II nella guerra di successione spagnola, Torino diventa meta obbligatoria dei viaggiatori dell’epoca, tanto da reggere il confronto con Roma, tanto che nel 1753 Giovanni Gaspare Craveri pubblica la “guida dei forestieri per la Real Città di Torino”, una sorta di Lonely Planet dell’epoca.

Di Torino piace l’architettura moderna, originale, plasmata dal genio di Guarini e Juvarra: i luoghi più lodati dai viaggiatori sono la facciata e lo scalone di Palazzo Madama, la gallerie di Diana di Venaria, la chiesa di Superga, Stupinigi, ma anche la chiesa del Carmine, l’Università, l’ospedale di San Giovanni e il teatro Regio (che fu perfino pubblicato sull’Encyclopédie). Piaceva il colpo d’occhio offerto dalla contrada di Po e dalla contrada Nuova (l’odierna via Roma, che assomigliava parecchio a via Garibaldi).

L’astronomo Jerome Lalande, nel suo viaggio in Italia tra il 1765 e il 1766, fu impressionato dal corso Francia, “una via larga e bella, i cui alberi molto alti e pieni di foglie portano un’ombra molto gradevole. La strada è fiancheggiata da ridenti campagne coltivate. Non avevo mai visto prima strade così gradevoli”.

E possiamo proprio immaginare l’arrivo a Torino con gli occhi di un viaggiatore dell’epoca, la strada alberata circondata dai campi, i mietitori, le carrozze e i cavalli, la città chiusa dalle imponenti fortificazioni da cui emergono cupole e campanili. Più oltre la verde collina che si staglia, con le residenze nobiliari e le vigne.
Un equilibrio di vuoti e di pieni, di chiari e di scuri, tutti tirati a filo nelle prospettive ordinate e regolari del tracciato cittadino: una grandiosità spettacolare ma pacata, elegante. Come nella migliore tradizione sabauda.

L’immagine è un’incisione di Ignazio Sclopis del 1780 e raffigura un evento memorabile, l’esibizione di un elefante nel piazzale antistante la Cittadella. Si riconosce il Mastio a sinistra (unico elemento rimasto della fortificazione nella Torino di oggi) mentre sulla destra il campanile più alto è quello del Comune, abbattuto anche lui per raddrizzare la via Dora Grossa (oggi via Garibaldi). E’ in questo piazzale che, nella Città delle Streghe, avviene la quasi esecuzione del cavaliere Berardi colpevole della consegna di Susa all’invasore francese.