Ieri ci siamo lasciati con il resoconto della sanguinosa e gloriosa battaglia di San Secondo. Riuscite a immaginare lo spettacolo che si presenta ai difensori della Cittadella al sorgere del sole?

Le fortificazioni della mezzaluna di Soccorso e delle controguardie, specie quella di fronte al bastione Beato Amedeo, sono compromesse. Gli spalti e il fossato sono una vera e propria montagna di cadaveri, in mezzo ai quali ci sono ancora soldati vivi, feriti e agonizzanti.

Ci si adopera per riparare almeno la breccia di fronte al bastione San Maurizio, l’unica per cui a quanto sembra vale la pena impiegare tempo e risorse. Uno degli ingegneri militari, il maggiore Soprelli, viene abbattuto da un cecchino francese mentre sta controllando i lavori: lo riportano le cronache, aggiungendo che la sua perdita viene pianta dai soldati perché era un ufficiale molto amato.

La Feuillade manda un ambasciatore con la bandiera bianca davanti al fossato per chiedere una tregua e dare cristiana sepoltura ai cadaveri. Von Daun lo rimanda indietro dicendogli di comunicare al suo comandante di non darsene pena, che ci penserà lui. L’ambasciatore torna indietro sconcertato.

Per tutto il giorno vengono buttati nel fosso quintali e quintali di legna e materiale combustibile.
Poi, ecco cosa accadde, dalle parole di un medico di servizio alla guarnigione della Cittadella, il dottor Rosingana: alle 23 “fu messo il foco a’ cadaveri e feriti insieme che gridavano come tante anime dannate”. Proprio così: per tutto il giorno si riempì di legname e fascine il fossato ingombro di morti e feriti, e alle undici di notte gli si diede fuoco.

L’evento viene raccontato in questo modo da un cronista inglese, Hakbrett, presente ai fatti. ”Non si è mai visto nulla di così abominevole, come le urla dei feriti e dei morenti, allorché sentirono il fuoco, e nulla di così toccante come gli sforzi che molti facevano per sottrarsi alle fiamme; alcuni si trascinavano verso la trincea, ma appena li si vedeva muovere e che parevano fuori dal fuoco, gli si tirava tanti colpi di fucile addosso, che li si finiva, altri si arrampicavano sulle nostre controguardie per arrendersi a noi, con delle grida lamentose, ma non appena avevano fatto tanto di mostrarsi sul parapetto, i nostri soldati li ricacciavano nel fuoco con qualche colpo efficace di fucile”.

Un altro cronista, l’abate Metelli, ci fa sapere che questo incendio viene alimentato di continuo. “[…] gettandovi fascine, e legna grossa in gran copia, si ripartiva con uncini di ferro attaccati sopra pertiche lunghe per tutta la superficie, acciocché il fuoco continuasse sempre acceso, e uguale per tutto, e perché in alcun modo non si estinguesse le guardie vi lanciavano sopra fagotti di stoppe inzuppate nell’olio con altri artificiosi bitumi, di modo che nel tramontare del Sole, fino all’alba si rendevano inestinguibili quelle fiamme, onde molti provetti nell’arte del guerreggiare confessavano francamente di non aver più veduto simili sforzi […] e tale invenzione di fuoco fu sempre continuata ogni notte, fino alla liberazione della piazza”.

Non ci sono parole per descrivere un simile orrore, e tanto meno per giustificarlo, ma ci proveremo ugualmente. Perché Von Daun ha preso questa terribile decisione?

Per tre validissimi motivi: (1) impedire ai francesi di valutare da vicino lo stato (pessimo) di salute delle fortificazioni,
individuandone i punti deboli, cosa che sarebbe inevitabile, durante l’operazione di recupero dei cadaveri. (2) creare una vera e propria barriera di fuoco per impedire un secondo assalto come quello della notte di San Secondo. Non dimentichiamoci il problema della penuria di polvere da sparo: non ce n’è abbastanza per sostenere un altro scontro della stessa intensità.
(3) i cadaveri insepolti, andando in putrefazione, facilitano la diffusione di malattie.

Il Solaro della Margarita riferisce: “i nemici, vedendo che un mare di fiamme ci separa da loro, sono sorpresi di questo orribile
stratagemma. I nostri soldati, contendi della confusione, e della rabbia degli assedianti, si prendono gioco di loro, uniscono volentieri le beffe alle ingiurie che solgono scambiarsi in simili incontri. Venite, gridano ad alta voce, venite a ballare al suono dei nostri oboi, ecco delle stanze ben illuminate”.

Sia quel che sia, non è un episodio di cui andare fieri.

Un altro cronista, il Tarizzo, cerca giustificazioni secondo il noto principio “sì, ma loro a noi hanno fatto di peggio”. Leggete cosa scrive: “E pure questo gran fuoco era un bel nulla in paragone dei lagrimevoli incendi che divoravano in vista della Città i Palagi innalzati sulle colline con tanta architettura e magnificenza. Passavano le fiamme da una valle all’altra a distruggere in pochi momenti quelle abitazioni erette col sudore di più lustri […]. Per molto che sia il danno di questi vasti incediamenti, non sarà mai che poco, ove si ponga in confronto con quello che hanno recato le imperversate licenze delle soldatesche di Francia con le loro estorsioni co’ loro enormi insulti e co’ loro saccheggi. Pur troppo passeranno a far orrore a i posteri le memorie di tante Chiese profanate, de sagri arredi di cui se ne faceva un pubblico mercato. Potranno sempre farne una testimonianza i
villaggi di Nole, Lusigliè, di Vernon, dove depredata la Santissima Pisside si sparsero qua e là sul suolo le consegrate Particole. I luoghi più santi erano per lo più i primi a soggiacere a i più inumani e abbominevoli sfogamenti. Sono troppo noti il saccheggi, i maltrattamenti di Druent, S. Gigli, Ciriè, Mathi, Grosso, d’Orbassano consegnato come interamente al fuoco […]. Lascio gli affronti fatti alla pudicizia di tante Verginelle innocenti in faccia dei medesimi altari”.

In mezzo a tanti orrori, giunge una luce a rincuorare i soldati e i civili. L’esercito guidato dal Principe Eugenio è in arrivo, e lo stesso von Daun mostra la lettera alla folla esultante.

Riconobbe l’odore di bruciato prima ancora di uscire, ma quando fu all’aperto scoprì qualcosa che andava ben oltre la sua immaginazione.
Dal cielo pioveva cenere: rimaneva sospesa sulla Cittadella, si posava sulle uniformi e sui cappelli dei soldati e sulle tonache dei preti.
Un orrendo fragore di fiamme proveniva dal fossato, insieme a voci disperate che invocavano pietà o urlavano terrore e sofferenza. Lingue di fuoco lambivano il parapetto, illuminando il presidio di fanti e artiglieri.
Gustìn raggiunse gli spalti senza che Maria né Amedeo lo fermassero. Il calore investì il suo viso come la vampata di una fonderia dell’Arsenale.
Era come se qualcuno avesse spalancato le porte dell’Inferno sotto la Cittadella: un muro di fuoco divorava il fossato, un rogo da cui si levavano le grida strazianti dei feriti intrappolati sotto il groviglio di cadaveri e macerie. Ogni tanto dal rogo uscivano sagome tremanti, avvolte dalle fiamme, che strisciavano verso le trincee: se non li uccideva il fuoco, era una pallottola a finirli. Sorte peggiore toccava a quelli che si arrampicavano sulle controguardie per arrendersi e che venivano rigettati nelle fiamme a forza di baionette. I corpi sussultavano in spasmi di agonia mentre le fiamme incendiavano le uniformi e scioglievano le carni.

(La Città dei Santi)

L’illustrazione di oggi raffigura gli spalti della Cittadella durante la battaglia di San Secondo, tratta da “La vera storia di Pietro Micca” del Corriere dei Piccoli.