La Guerra di Successione Spagnola divampa ormai in tutta Europa e il fronte di guerra italiano comincia a scaldarsi quando nuove forze invadono il Ducato di Savoia unendosi a quelle già presenti, agli ordini del generale Vendôme. Nel giugno del 1704, dopo aver conquistato la Savoia (con l’eccezione della fortezza di Montmélian), l’armata del Duca de la Feuillade valica il Moncenisio e scende in val di Susa.

Le città di Susa e Pinerolo si arrendono senza combattere, cosa che fa infuriare il Duca di Savoia. Il governatore di Susa, il cavalier Bernardi, ha consegnato la piazza dopo aver ricevuto il Duca de la Feuillade nel suo ufficio dove campeggiava una mappa con il dettaglio delle fortificazioni. Accusato di alto tradimento e condannato a morte, il Bernardi viene graziato all’ultimo momento e proprio durante l’esecuzione (questo episodio è raccontato in dettaglio ne “la Città delle Streghe”).

Poco dopo cadono Vercelli e Ivrea. Il Duca scrive al cugino, il Principe Eugenio: ‘Ho ragione di tutto temere, dopo le deboli prove di valore e fedeltà degli ufficiali piemontesi: tutta la mia fiducia è ora posta nelle truppe dell’Imperatore’’.
Il forte di Bard, costruito in una posizione che lo rende praticamente imprendibile (se avete visto il film “Avengers  – Age of Ultron lo trovate nelle sequenze iniziali), si arrende senza sparare un colpo. Il comandante, lo svizzero Reding, si arrende senza sparare un colpo e passa dalla parte del nemico come Maresciallo di Campo. Il gesto è talmente vile e spregevole che i torinesi se ne ricorderanno per un pezzo: l’ufficiale traditore ispira la figura del “cattivo” colonnello Gredin (ah l’omonimia!) nel romanzo storico “Dragoni Azzurri” del Dumas Italiano, Luigi Gramegna.

La caduta di Ivrea e di Bard è particolarmente drammatica perché blocca il passaggio verso la Svizzera da cui passavano, fino a quel momento, le sovvenzioni di Inghilterra e Olanda concesse al Duca di Savoia in cambio dell’alleanza contro la Francia e di una posizione più morbida verso le popolazioni protestanti del Piemonte (i Valdesi). La situazione si fa drammatica ed è una fortuna che la fortezza di Verrua resista per ben sei mesi, impedendo al Vendòme di superare il Po e di piombare su Torino. L’impresa del forte ha del miracoloso: per conquistare Verrua i francesi perdono 6 generali, 547 ufficiali e 12000 soldati. Il giorno della resa, il 9 marzo 1705, il comandante del forte Colonnello Fresen lo fa saltare in aria per lasciare al nemico soltanto macerie.

Aggirata la piazza di Chivasso dalle manovre francesi, il Duca di Savoia può contare solo sul Principe Eugenio con l’armata di Soccorso (che però è bloccato in Veneto dalle contromosse del Vendòme)… e da nuove elargizioni dei banchieri olandesi, rinfrancati dall’impresa di Verrua. Dal punto di vista militare, però, resta il fatto che Torino è completamente isolata.

Il Duca de La Feuillade arriva a Venaria Reale già all’inizio di agosto del 1705 e scrive tutto tronfio a Versailles che la caduta di Torino è imminente. Per otto giorni nel mese di settembre mette la città sotto il fuoco dei cannoni, ma senza scalfire le difese. A ottobre La Feuillade ritiene di non avere abbastanza uomini per conquistare Torino e chiede il permesso a Luigi XIV di attendere rinforzi, in vista anche dell’inverno imminente che rende più difficili i movimenti. Sua Maestà Cristianissima acconsente, confermando con un errore l’errore del suo generale: a posteriori, possiamo senz’altro affermare che questo tergiversare fu una delle prime cause della sconfitta francese dell’anno dopo.

Il Duca de La Feuillade si ritira dunque nel suo campo invernale a Venaria e il Duca di Savoia, secondo lo spirito dell’epoca del “noblesse oblige”, lo considera suo ospite e gli manda in omaggio essenze e rinfreschi. A dispetto di queste gentilezze, la situazione del Ducato è drammatica. Cadute (nel dicembre del 1705) anche le fortezze di Nizza e Montmélian, Vittorio Amedeo II è circondato da tutte le parti e non ha più possibilità di ricevere aiuti dagli alleati.

La sua fortuna arriva dalle Fiandre, dove le vittorie degli inglesi e degli imperiali costringono il Re Sole ad allentare la pressione sull’Italia e a concentrarsi a nord, in particolare cambiando la linea di comando: l’esperto generale Vendòme viene spostato nelle Fiandre a raddrizzare i disastri dei generali Tessé e Marsin, e quest’ultimo viene inviato in Italia a dare consigli di strategia a La Feuillade. Con le adeguate proporzioni, è un po’ come scambiare lo Champagne con il Tavernello. E malgrado l’armata francese porti ad assediare Torino 44000 uomini, 110 cannoni, 60 mortai e 48 ingegneri, i risultati dello scambio si vedranno a lungo termine.

Per tutto l’inverno tra 1705 e 1706 il Duca di Savoia si dedica a fortificare Torino e la Cittadella, con l’aiuto determinante di Antonio Bertola, che studiò le opere di difesa di superficie (innalzando un terrapieno a protezione degli spalti che venivano di fatto resi invisibili al piano della campagna) e specialmente sotterranei (attraverso la fitta rete di cunicoli che si dipartivano sotto la Cittadella per combattere la guerra di mina). Nel frattempo continuano le operazioni di approvvigionamento di cibo, vettovaglie e polvere da sparo per sostenere l’assedio, finanziate da prestiti bancari e perfino dalla vendita di beni e gioielli di famiglia Savoia. A tirare le fila della borsa c’è uno degli uomini di maggiore fiducia del Duca, il ministro delle Finanze conte Giovanni Battista Gropello (una figura che appare sovente nella Città delle Streghe, nella Città dell’Assedio…  e nella Città dei Santi)

Ma arriviamo finalmente al momento di iniziare la cronaca giorno per giorno, e quindi al 9 maggio 1706. In città si diffonde l’ordine del Duca inerente traditori e disertori. Assistenza per i disertori nemici, premio per l’arresto dei disertori sabaudi.

“Quantonque per editto nostro delli 10 maggio 1704 havessimo provisto alla sicurezza de’ soldati delle truppe nemiche, che vengono a rifuggiarsi nel nostro campo per prendervi partito o per ritirarsi altrove, ad effetto non fossero oltraggiati, anzi fosse data a medesmi ogni assistenza, tuttavia essendo informati che continuano gli abusi, ci siamo determinati di apportarvi il convenevole rimedio. Commandiamo alli ordinarii, loro luogotenenti, sindici, conseglieri, segretarij […] che presentandosi qualche disertore delle truppe nemiche, debbano prestarli ogni assistenza e favore, accompagnandoli e facendoli scortare sino al nostro campo o pure ne’ luoghi dove vi sarà presidio, quelli consegnando alli ufficiali commandanti, e questo affinchè non sia loro inferta alcuna  molestia, sotto pena in caso di contravenzione di scudi cinquanta d’oro per caduno in particolare, e scudi ducento simili in commune al fisco nostro applicandi, e di esser tenuti di risarcire et indennizzare il desertore del danno, che si giustificarà sommariamente havesse patito per la non data assistenza. Prohibiamo espressamente a chionque de nostri sudditi o habitanti ne nostri Stati, et ad ogni altro che sia spediente, di prendere a’ suddetti disertori vestito, cavallo, armi, o dinari, né qualsivoglia altra cosa sotto pena della vita […].

E per contenere sempre più la desertione de’ soldati della nostra armata, accordiamo a chionque non sarà assentato, che arresterà (durante questa campagna) soldati disertori, tanto de’ reggimenti di nostra fanteria, che delle truppe de’ nostri alleati doppie cinque di premio per caduno d’essi desertori, che rimmetteranno alla giustizia militare, quali mandiamo all’auditore nostro generale di guerra di far pagare dopo la presentatione del desertore ipso facto, fermo sempre rimanendo quanto a desertori di cavalleria e dragoni delle nostre truppe il premio di livre ducento, che abbiamo accordato a chionque gl’arresterà per editto nostro delli 11 luglio 1695, quali dovranno pagarsi nella conformità sovra espressa […].”

Come si può intendere da questo manifesto, disertare e passare dalla parte del nemico era una pratica tutt’altro che rara. I problemi, per il Duca di Savoia e Torinesi, saranno tuttavia ben altri… e stanno per cominciare.

Nell’immagine, il plastico della Cittadella di Torino riprodotto nel museo Pietro Micca.