In fondo alla via si ammassavano gli edifici del borgo, e da quella parte arrivava l’inconfondibile olezzo delle concerie. Laura cercò di calcolare quanto mancasse per arrivare a casa, poi abbassò gli occhi ed ebbe l’impressione di vedere una forma scura distesa sulla strada, forse un sacco caduto da un carro.
Si avvicinò per guardare meglio perché il sacco poteva contenere del cibo… invece le sembrò che indossasse degli abiti. Sulle prime le sembrò divertente, ma subito dopo ricordò la storia che aveva sentito quel pomeriggio, dell’assassino che strappava il cuore alle vittime, e le gambe diventarono blocchi di legno.
La forma si mosse e Laura si accorse che si trattava di un bimbetto cencioso, la faccia sporca e coperta di croste.
«Dammi da mangiare…» la implorò il mendicante, con occhi troppo maturi per la sua età. Gli diede un pezzo di salsiccia e il bambino si dileguò nella nebbia.
Laura aveva la fronte imperlata di sudore e la testa le faceva male. Si chiese se quel bambino l’avesse visto davvero, o se fosse stato una specie di visione. Abbassò gli occhi. L’involto delle salsicce era aperto tra le sue mani, la carne cotta che spandeva il suo profumo appetitoso. Mancava un pezzo.
Non l’ho sognato.

(La Città delle Streghe)

Pur essendo un cibo più costoso di altri, la carne si trovava spesso nelle tavole dei torinesi, anche solo per il brodo, o per il ricco pranzo della domenica. Le carni bovine (vitello e secondariamente bue) pur essendo le più costose erano meno gradite delle altre. I torinesi mangiavano, per tradizione, carni suine e ovine soprattutto d’inverno.

La produzione di carne piemontese era di tale livello da consentire al Ducato di Savoia non solo di soddisfare il consumo interno, ma anche di esportare.
Il commercio della carne aveva una severa regolamentazione controllata dagli uffici del Vicario. A condurre il bestiame a Torino erano solo persone autorizzate (i cosiddetti “postieri”) che a loro volta dovevano rivolgersi a fornitori autorizzati per l’acquisto delle bestie secondo le regole stabilite dai bandi. Le regole erano severissime: non si potevano prendere accordi né fare contrattazioni prima dell’inizio dei mercati, tutti i capi comprati per soddisfare la richiesta alimentare torinese dovevano essere portati al mercato ed era fatto divieto di dirottarli verso altre città. Molto severi erano i controlli sulla qualità delle bestie e sul loro stato di salute.

Il mercato all’ingrosso avveniva nella piazza di Moncalieri, anche se i vitelli che provenivano dal Canavese venivano venduti al mercato (più piccolo) del sabato di Borgo Dora. Il mercato iniziava con l’esposizione della banderuola su cui erano dipinte le insegne della città, e per le prime due ore potevano accedervi solo i macellai torinesi, che quindi avevano un vantaggio rispetto ai privati o a commercianti di altre città. Tra i macellai c’erano figure di riguardo, come l’appaltatore dei macelli cittadini. Tolta la banderuola, tutti potevano accedere al mercato e le contrattazioni andavano avanti finché rimanevano bestie da vendere.

Tutti gli animali venivano portati al mattatoio cittadino, localizzato nel Borgo Dora (fuori città, a causa del tremendo olezzo). Da Moncalieri le mandrie dovevano passare sulla riva destra del Po, per non creare disagio al centro cittadino era vietato il passaggio. Anche il mattatoio era soggetto a regole che cercavano di minimizzare i disagi agli abitanti del Balòn, come il divieto di svuotare in strada il sangue. La città incaricava un funzionario (“sovrastante”) che andava a visitare gli animali per assicurarsi del loro stato di salute. Il sovrastante divideva i vitelli dai buoi con appositi marchi e li “affidava” ai macellai, che procedevano alla macellazione e poi portavano i quarti nelle loro botteghe.

Nella Torino di fine Seicento le macellerie accertate erano una ventina, per lo più nell’area di piazza delle Erbe (l’odierna piazza Palazzo di Città) e piazza della Frutta (nell’area tra Piazza Emanuele Filiberto e Porta Palazzo).

Il Vicario di polizia stabiliva un prezzo massimo di vendita sulla base della media dei prezzi di mercato. Questa media, detta “comune”, veniva calcolata una volta al mese. Agli atti del Vicariato risultano frodi alimentari piuttosto frequenti, come macinare le carni fresche con altre più scadenti o avariate, anche usando spezie e aromi per mascherare odore e sapore sgradevole. Considerati i limiti dei sistemi di conservazione dell’epoca, è facile immaginare quanto il rapido deterioramento dei cibi potesse causare intossicazioni anche gravi. E si spiega anche perché il Vicario fosse così attento verso le frodi, e severo nel punirle.

(l’immagine è di un’opera di Bartolomeo Passerotti intitolata, manco a dirlo, “la macelleria”)