A Torino gli ebrei costituivano una comunità piccola ma nemmeno troppo: un migliaio di persone, per una città che ne contava circa 45000 ai tempi del censimento ordinato da Vittorio Amedeo II.

I primi arrivarono in città alla fine del 1300, e in pochi anni diventarono così tanti da richiedere un’apposita legislazione da parte del Duca di Savoia, per fare fronte alle discriminazioni a cui erano sottoposti. Il clima, anche grazie agli Statuta Sabaudiae, era tuttavia di tolleranza, in particolare ai tempi di Emanuele Filiberto che attuava una politica molto liberale. 

Nel 1572 il Duca noto come Testa di Ferro scrisse: “concediamo ad ogni et qualonche di detti portoghesi e spagnoli di stirpe ebrea et altri soprannominati che da qualsivoglia parte per l’avvenire venga ad abitare in questi nostri stati di Savoia et contado di Nizza et Piemonte. Libero, inviolabile et irrevocabile salvo condotto et ferma et inconcussa sicurezza per essa et loro beni, famiglia et discendenti si maschi come femine, concedendogli anche gli infrascritti privilegi et capitoli.”

Le cose peggiorarono già con il Figlio di Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I, che nel 1603 obbligò gli ebrei a portare un nastro giallo di seta o lana, pena una multa di 25 lire. Più avanti il nastro divenne una croce gialla cucita sulla spalla destra.

Nel 1679 la reggente, Maria Giovanna Battista di Nemours, stabiliì con apposito decreto l’istituzione del primo (e unico) ghetto a Torino e in Piemonte. Il luogo individuato fu quello che un tempo era occupato dall’Ospedale di Carità, da poco trasferitosi nella nuova sede in via di Po: un intero isolato, quello intitolato al Beato Amedeo, compreso tra via scuderia del Principe di Carignano (oggi via Bogino), contrada di S.Filippo (via Maria Vittoria), via d’Angennes (via Principe Amedeo) e via San Francesco da Paola (che ha mantenuto il nome al giorno d’oggi).

Gli edifici, alti quattro piani quanto quelli limitrofi, avevano al loro interno una fitta sovrapposizione di soppalchi e ammezzati, ballatoi, scale e corridoi di collegamento per alloggiare il maggior numero di famiglie e sfruttare al meglio lo spazio disponibile.

L’ingresso principale di via S.Filippo 5 si affacciava nel Cortile Grande (la Court Granda), dove c’erano la sinagoga per il rito italiano e altre strutture collettive. Dall’entrata secondaria di via San Francesco da Paola si entrava nel Cortile della Terrazza (Court d’la Trasa), dove c’era il forno per la cottura del pane azzimo. L’ingresso di via Scuderie del Principe di Carignano dava sul Cortile dei Preti, chiamata anche Vecchio Chiostro o Court di Galahim. Da via d’Angennes si entrava in fine nel Cortile della Vite (Court de la Vite), dove c’era la sinagoga di rito spagnolo. Raggiungibile solo dai quattro cortili ce n’era un quinto, detto della Taverna. I cortili ospitavano botteghe di ogni genere e comunicavano tra loro attraverso corridoi coperti, dal sinistro nome di Portici Oscuri e che costituivano, per chi non era abituato a percorrerli, un vero e proprio labirinto. A tutti gli ingressi c’erano robusti cancelli in ferro battuto, che potevano essere aperti e chiusi solo dall’esterno.

Non potendo estendersi in altezza, il ghetto sfruttava anche gli spazi nel sottosuolo. Sotto la Court Granda c’era la vasca per il bagno rituale, ma anche altri luoghi in cui spesso i torinesi in difficoltà economiche andavano a impegnare i loro beni. Gli abitanti del ghetto erano per la maggioranza artigiani, commercianti e piccoli borghesi.

In cosa consisteva la segregazione in una città come la Torino di inizio 1700? Abbiamo visto della croce gialla: era obbligatoria per tutti i maggiori di 14 anni, ma non quando erano in viaggio fuori città, per non essere vittime e bersaglio di aggressioni.

Il divieto di uscire dal ghetto vigeva in alcuni orari e alcuni giorni dell’anno. Gli ebrei sorpresi al di fuori dal ghetto nelle ore notturne erano condannati a salatissime multe o al carcere, a meno che non fossero giustificati dalla partecipazione alle fiere (nel qual caso godevano di una deroga di dieci giorni prima e dieci giorni dopo l’evento). I Savoia riconoscevano agli ebrei l’abilità nell’artigianato di cui non volevano privare i loro mercati.

Durante la Pasqua e i giorni in cui si celebrava la Passione di Cristo gli ebrei avevano il divieto assoluto di uscire dal ghetto. Senza deroghe. Inoltre le abitazioni che avevano finestre rivolte fuori dal ghetto dovevano tenerle chiuse e oscurate. Non era consentito mostrarsi ai cristiani.

Gli ebrei avevano anche limitazioni sui beni posseduti: sì al denaro e agli oggetti preziosi, no alle case e ai terreni. Le abitazioni del ghetto erano dunque di proprietà di famiglie cristiane e date in affitto: il che presentava alcune contraddizioni interne. Cosa succedeva se la famiglia ebrea non aveva abbastanza denaro per pagare l’affitto? Non poteva certo essere cacciata fuori dal ghetto, visto che era l’unico posto in cui la legge sabauda le consentiva di vivere. Per fare fronte a casi di questo genere le autorità stabilirono che le spese a carico delle famiglie indigenti venissero coperte dalle altre famiglie ebree.

A fronte di tanti doveri, i sudditi ebrei avevano anche dei diritti. La libertà di culto, innanzitutto, che non è qualcosa di così scontato. Gli ebrei potevano praticare i loro riti nelle loro sinagoghe senza che questo fosse considerato reato. Erano previste pene per chi uccideva o aggrediva gli ebrei, per chi né danneggiava le case, le botteghe e gli averi, e perfino per chi cercava di convertirli con la forza al cristianesimo!

Non che la conversione fosse scoraggiata, anzi. Se avveniva, e avveniva in maniera spontanea, dava diritto all’immediato svincolo dalle limitazioni a cui erano soggetti gli ebrei. Dava inoltre diritto al convertito di pretendere subito dai propri genitori la dote e la quota di eredità. In cambio veniva loro proibito di parlare con ebrei non convertiti per non correre il rischio di cambiare di nuovo idea. Cambiare parrocchia aveva i suoi vantaggi, ma non certo quello di mantenere i legami affettivi con i parenti…

Le cose cambieranno per gli ebrei nel 1848, quando i Savoia porranno fine alle politiche segregazioniste e ai ghetti. Per un secolo di relativa pace e tranquillità, prima degli orrori che ben conosciamo.

L’immagine in testa al post raffigura la cancellata del ghetto tuttora presente in via Maria Vittoria.

 

Passarono davanti alle scuderie del principe di Carignano, poi varcarono un cancelletto che dava sul cortile interno di un palazzo. Gustìn riconobbe il vecchio chiostro che la gente chiamava ancora “il Cortile dei Preti”, benché fosse sconsacrato da tempo. Comprese che stavano entrando nel ghetto degli ebrei.
Maria si fece strada ignorando le persone che incontravano, e venendone allo stesso modo ignorata. Tutti esibivano, come prescritto dalla legge, un vistoso nastro di lana gialla. Gli uomini portavano la barba, le donne avevano i capelli coperti da velette.
Tutt’intorno si aprivano botteghe di oggetti usati e in alto, lungo i ballatoi,
bagliori di candele e voci sommesse rivelavano che in quel luogo viveva qualcuno.
Gli edifici che formavano quell’isolato della Città Nuova erano stati resi abitabili in ogni angolo, con soppalchi e stanze una sull’altra dove i soffitti alti lo consentivano.
Gustìn afferrò qualche parola delle conversazioni intorno a loro, in un dialetto che mescolava torinese e giudaico. La battaglia della notte precedente, il prezzo del pane, le bombe che cadevano: il ghetto non si sottraeva alle stesse paure dei quartieri che lo circondavano, chiudendolo come un muro.
Senza che nessuno le facesse domande o cercasse di fermarla, Maria aprì un cancello di ferro e iniziò a scendere una rampa di scale che si perdeva nel buio, ma all’ultimo momento sembrò ricordarsi di Gustìn.
E dell’assenza di luce. Gli indicò un rilievo su cui era appoggiata una lanterna accesa.
«Prendetela e seguitemi.»
(La Città dei Santi)